Image default
Arte & Cultura In evidenza

Cos’è la schwa e cosa ne pensano i linguisti

La proposta per l’introduzione della SCHWA sta facendo molto discutere.

Infatti ‘schwa‘, la piccola ‘e’ rovesciata che alcuni vorrebbero aggiungere o sostituire alle desinenze italiane per includere in un colpo solo tutti i sessi e le identità di genere, rischierebbe di indurre in notevole confusione.

“L’italiano si può rendere più inclusivo, ma le proposte per farlo devono rispettare le regole del sistema lingua, altrimenti la comunicazione non si realizza, e la lingua non funziona. Parlo da linguista, non da filosofa o sociologa”, premette la professoressa” – È la posizione di Cecilia Robustelli, ordinaria di Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Modena e Reggio Emilia lavora con l’Accademia della Crusca.  Si commetterebbe infatti il rischio di sostituire con un simbolo il genere grammaticale.

“SE SI ELIMINANO LE DESINENZE IL TESTO DIVENTA UN MUCCHIETTO DI PAROLE”. E’ pur vero che il genere grammaticale ammette i soli due generi maschile e femminile, non rappresentando coloro i quali non rientrano nell’uno o nell’altro. L’impressione è che “il termine ‘genere’ venga spesso usato con il significato di ‘sesso’ e questa confusione complica il ragionamento, già di per sé complesso”.

“Quando si cambia qualcosa in una lingua ci si deve innanzitutto chiedere se quel cambiamento funziona per assolvere allo scopo che un sistema linguistico deve compiere, cioè la comunicazione. Spesso le proposte ingenue sono animata da buone intenzioni ma irrealizzabile nella realtà della lingua italiana. Piuttosto di affidare alla grammatica il compito irrealizzabile di comunicare nuovi generi o la decisione di non accettarli, perché non intensificare la discussione sul loro significato e approfondire le ragioni che ne motivano la richiesta di riconoscimento sociale? È il discorso il luogo adatto a questo scopo, non la grammatica”.

Secondo la linguista, è altrettanto “fondamentale nella lingua italiana nominare donne e uomini con termini maschili e femminili e usare al femminile anche i termini che indicano ruoli istituzionali e professionali di genere femminile se sono riferiti a donne, non soltanto una posizione femminista: è una posizione da linguista, perché se non si attribuisce alle donne il titolo femminile, si trasgredisce ai principi di accordo e assegnazione di genere che invece permettono di riconoscere le donne, dando inoltre un’immagine della realtà conforme a quella che è ora, non 50 anni fa”.

Se si usano per le donne termini maschili, si usa un italiano in modo scorretto e se qualcuna dice di voler essere chiamata al maschile, la risposta deve essere ‘no’– conclude la professoressa Robustelli- Non lo chiedo io ma la lingua italiana. A nessuna persona si può chiedere di contravvenire alle regole della sua lingua e di esprimersi in modo non chiaro”.

Concludendo sulla Schwa: “Se proprio lo si vuole usare, un simbolo al posto di una desinenza può essere permesso in frasi brevissime, nelle formule di apertura o di chiusura di una comunicazione, e allora ha funzione identitaria.

In merito alla decisione del dizionario francese Petit Robert di introdurre ‘iel’ (nato dalla fusione tra ‘il’ e ‘elle’), resta perplessa perché normalmente per l’inclusione di nuovi termini si aspetta che essi si siano acclimatati. Ma non cambia, o molto lentamente, per quanto riguarda la morfologia, la sintassi. Ad esempio, nel lunghissimo passaggio dal latino all’italiano il genere grammaticale neutro piano piano se ne è andato, il sistema dei casi latini è scomparso, la funzione di soggetto e oggetto non è stata più determinata dalla desinenza ma dalla posizione rispetto al verbo, eccetera. Ma tutto questo ha richiesto secoli”.

Una posizione difficile che richiede sicuramente un dibattito partecipato e importante.

Marino Ceci

Altri articoli