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Bomarzo: il parco dei mostri

Nato nel 1552 come “Villa delle meraviglie”, il sacro bosco di Bomarzo, sito tra le alture della Tuscia, custodisce un complesso monumentale quasi unico al mondo.

«Voi che pel mondo gite errando, vaghi di veder meraviglie alte et stupende, venite qua, dove son faccie horrende, elefanti, leoni, orchi e draghi» scriveva il principe Vicino Orsini, che decise di dedicare l’intero parco al grande amore della sua vita, Giulia Farnese, morta in giovane età.

Il giardino, diversamente dagli altri giardini rinascimentali all’italiana, abbandona totalmente ogni barlume di simmetria e prospettiva e si presenta come un susseguirsi di apparizioni scultoree a tema mitologico, un tempo dipinte a colori e coronate da indovinelli consequenziali.

Il colore, del resto, secondo il progetto di Orsini, avrebbe «aumentato l’impatto con il visitatore e potenziato la forza fantastica delle sculture».

Statue meravigliose, amene, spaventose e favolose: dall’elefante in assetto di guerra che rievoca il devastante passaggio di Annibale al gigante che squarcia un giovane uomo (evidente richiamo a Rodi, la città dei cento colossi, o ad Ercole e Caco, allegorie del bene e del male).

Impossibile non restare, poi, incantati dalla testuggine gigante, dalle seducenti sirene, dalla fontana di Pegaso e dalla strana casa pendente che sembra stia per crollare da un momento all’altro, evidente riferimento all’incontrollabile caducità della vita.

Nascosto nel bosco anche il terribile orco, in qualche modo simbolo rappresentativo di Bomarzo, una testa di uomo-mostro impietrita in un grido spaventoso e capace di cambiare espressione a seconda della diversa direzione dei raggi solari che lo colpiscono durante l’arco della giornata.

Come attesta la parafrasi dei versi danteschi incisi sulle sue labbra: Ogni pensiero vola, esso potrebbe rappresentare, quasi sicuramente, l’ascesa al mondo degli inferi.

Un luogo mistico, amato e apprezzato da artisti, scrittori e intellettuali di ogni tempo, primo fra tutti Goethe, appartenente ai Beni Storico – Artistici del Lazio e curato dalla famiglia Bettini dal 1954.

Ambra Belloni

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