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Descrizione di una defecazione

Lo schiudersi di una porta è cosa comune, talvolta al mattino, sovente di sera, tra buio e luce l’ombra vaga di chi sta per uscire, si lascia ascoltare.

E sul suo apparire c’è sempre silenzio, come quando non sai se quel che si sta rivelando ti aggrada o meno. La suspense è qualcosa di irritante, perchè sei lì che attendi e sei attanagliato dall’incertezza. Non riesci a capire se chiudere la porta, se aprirla del tutto.

Sono tante le porte e di varia misura. Ce ne sono di nuove e di vecchie, di quelle che non si chiudono più, di quelle che rumoreggiano al minimo spasmo. Porte strette e porte larghe, porte piccolissime e portoni. E a seconda di tutte queste caratteristiche, anche il sopraggiungere delle sagome cambia. Non è detto poi che la fatidica ombra nera sia piccola quanto lo è la porta, sorprendentemente infatti capita che, quasi per dispetto, avvenga il contrario, ovvero che qualcosa di enorme riesca a passare sul filo di luce scosceso, tra le macerie di cornici ormai compromesse.

Vi sono poi le ombre minuscole, come anici di uva, che si perdono negli spazi viola di giganteschi usci. Hanno pure una voce riecheggiante di pozzi salmastri. Hanno la forma di vocali aperte, liberatorie come un insulto.

Che dire delle ombre? Scure come la sagoma delle montagne sul calar della sera, in rarissimi casi inodori o simili al ricordo del latte fermentato, quando le porte sono acerbe.

Ombre anche sformate, ove insieme ai soggetti in uscita ci sono pure le metafore, i simboli, tutti traboccanti di svariate imprecazioni. Sono ombre che fanno capolino senza alcun rispetto di orari, improgrammabili, in qualsiasi momento della notte e del giorno. E dialogano con noi, accompagnandoci pudicamente in questo rituale variegato, dove l’interlocutore somiglia spesso ai nostri nemici. Anche per questa ragione ce ne liberiamo con piacere, perchè le porte semichiuse sono come le transizioni, tra qualcosa di vecchio ed altro di nuovo, tra pienezza e leggerezza, tra incompiutezza e definizione.

Eppure, se quelle ombre fossero davvero i nostri nemici, soffriremmo tutti di dissenteria e al tempo stesso di stitichezza cronica, perchè disfarsi della mediocrità e della gratuitità, ancor più che delle cattiverie, è sempre un momento faticoso che richiede impegno.

Sorprendente invece dichiarare che non vi sono affatto nemici in questa parentesi taciuta e regolarmente attraversata da tutti.

Tante porte, tante ombre. Tante ostruzioni, tante frane. Tante preghiere, tante bestemmie.

Tanto intimo oscillare, in occasione di venti più o meno forti, dove la porta sbattuta si mostra come sano gesto egoistico su cui forse Freud avrebbe ampliato le sue tesi.

Ombre a volte taciute e altre volte dichiarate, sono il solo retaggio che ci permette di uccidere, quando le sagome sono eccessive; di suicidarci, più o meno inconsapevolmente, perchè in certi ambiti chiunque rischia. Quasi sempre di sopravvivere e di contribuire alla ciclica universale mescolanza di sogni rincorsi e di ammissioni trattenute.

L’intimo e ripetuto momento – peraltro accompagnato dalla generazione di colori che tolgono monotonia all’incolore delle acque e che anzi le impreziosiscono di ocra e vermiglio – per quanto imbarazzante da rivelare, resta la più grande occasione per desiderarne la sofferenza, per inalare noi stessi fin dentro il proprio principio amniotico ed in questo modo soffermarci nella più sottile e profonda unione con quell’ io sorpreso, scoperto. E con la via lattea così universalmente condivisa dalle nostre bocche assetate, così materna e generosa al pari del suo stesso infinito.

Eleonora Giovannini

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