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Bambini selvaggi: fondamentale prova dell’influenza dell’ambiente sullo sviluppo umano

Sono numerosi i casi documentati di bambini vissuti lontano dagli altri esseri umani, in ambienti selvatici, perché smarritisi, abbandonati o fuggiti da casa. Una volta ritrovati, il loro studio ha portato ad importati scoperte sul processo di crescita dell’uomo.

I casi di bambini selvaggi di cui abbiamo notizia sono numerosi, ma abbiamo una buona documentazione solo su una ventina di essi, tutti collocabili negli ultimi tre secoli. Solo per menzionarne alcuni ricordiamo i nomi di Victor dell’Aveyron, di Bello in Nigeria, di Lobo in Messico, di Marina Chapman in Colombia ecc. Sono quasi tutti vissuti insieme ad animali che si sono presi cura di loro come fossero cuccioli della loro specie. Questo ha comportato effettivamente l’entrata dei bambini nel mondo animale come veri e propri suoi membri: non avevano postura eretta,
si riuscivano a muovere a quattro zampe velocemente, avevano olfatto e udito straordinariamente sviluppati, in molti casi il loro corpo era coperto da una peluria piuttosto folta e avevano una intelligenza naturalistica particolarmente sviluppata (capacità di distinguere le specie animali e
vegetali, di comprendere le relazioni tra specie e tra soggetti di uno stesso gruppo animale ecc.).

Un volta ritrovati questi bambini sono stati letteralmente “catturati” e riportati nella società con risultati alquanto deludenti. Per la maggior parte di essi il reinserimento tra gli esseri umani è stato sinonimo di una vita trascorsa da emarginati o da “ritardati”, spesso accompagnata anche da una
aspettativa di vita davvero breve (molti sono morti pochissimi anni dopo il reinserimento, ancora giovanissimi). Gli ostinati tentativi di istruzione sono spesso falliti, in altri casi non si è riuscito a far loro imparare nulla più di compiti elementari e qualche parola per indicare persone ed oggetti. Il grado di fallimento dei tentativi di recupero dipende dall’età in cui i bambini sono usciti dalla società e dalla durata del periodo trascorso nel mondo animale. Tanto più sono piccoli al momento dello smarrimento, della fuga, o dell’abbandono ed è lungo il periodo di lontananza dagli altri esseri umani, tanto più è alta la probabilità di fallimento del reinserimento.

In particolar modo la questione è legata allo sviluppo del linguaggio che, come chiarisce la psicologia, non è solo mezzo di comunicazione, ma anche di ordinazione e sviluppo del pensiero umano (si pensi che comunicare qualcosa ci aiuta a meglio analizzarla e comprenderla, e che il pensiero umano si articola nella nostra mente per concetti verbali che provengono proprio dal linguaggio).
Al riguardo il mondo della psicologia e pedagogia parla di “apertura celestiale” per indicare quel periodo proprio dei primissima anni di vita del bambino (all’incirca i primi sette) in cui il cervello umano ha l’innata predisposizione a sviluppare la capacità di parlare, se il cervello in questo periodo non è stimolato tramite un contatto diretto con una ambiente umano di esseri “parlanti”, che può ascoltare ed osservare, non imparerà più a comunicare verbalmente nel senso pieno del termine in
quanto questa particolare propensione del cervello, questa “apertura celestiale”, declina progressivamente dai 7 anni in poi in maniera drastica. Il soggetto dunque non sarà in grado di utilizzare le parole per indicare oltre che semplici oggetti anche concetti astratti. Ne consegue dunque
che il cervello non acquisirà quella complessità di pensiero caratteristica dell’uomo.

A questo punto non si può non citare anche la teoria dell’imprinting di Konrad Lorenz, secondo cui qualsiasi animale si riconosce come appartenente ad una specie piuttosto che ad un’altra in base alla
figura di riferimento che ha durante l’infanzia, indipendentemente dalle proprie caratteristiche fisiche e dalla propria origine biologica.
Le storie dei bambini selvaggi sono prova del fatto che ognuno di noi è per buona parte frutto dell’ambiente in cui cresce, e, soprattutto, che quelle capacità che consideriamo caratteristiche peculiari della nostra specie come il linguaggio ed il pensiero astratto non sono innate ma si
acquisiscono.

Possiamo dunque dire che “umani” non si nasce, si diventa.

Glenda Oddi

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