Un moderno Leopardi sensibile ai temi femminili: ” Io gelo e sudo pur quando ne la mente mi ritraggo il tuo scempio “

ACER

Nel marzo del 1819, all’età di ventun anni, Leopardi, basandosi su un fatto di cronaca di cui si parlò a lungo, fu uno dei primi scrittori ad affrontare il delicatissimo tema dell’aborto in un componimento poetico.

Senza falsi moralismi, egli si schierò dalla parte di una giovane donna pesarese al quinto mese di gravidanza, che non praticò l’aborto come scelta volontaria, bensì sotto la costrizione di due uomini: il suo amante e il chirurgo Angelo Lorenzini, perdendo la vita a seguito di un’emorragia.

Soltanto in un secondo momento, durante il processo, fu accertato che «corruttore» e dottore (distinti nella poesia leopardiana e duramente condannati), erano in realtà la medesima persona.

Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo,

fu scritta di getto, con impeto appassionato; tuttavia, la Canzone, divisa in dieci strofe, venne subito ritenuta dal padre di Leopardi «sconveniente, oscena e scandalosa».

Monaldo scrisse addirittura a Pietro Brighenti, editore e amico di famiglia, per impedirne la pubblicazione (ancora oggi il componimento non figura, infatti, tra i Canti, ma tra gli Altri scritti del poeta); amareggiato, in una lettera all’editore, Giacomo precisava: «Mio padre leggendola s’immaginò subito mille sozzurre nell’esecuzione e mille sconvenienze nel soggetto».

La donna, non di basso ceto, e sicuramente sposata, non morì certo di infezione tonsillare, come venne inizialmente dichiarato dal chirurgo, bensì di «dissanguamento»; la cameriera confessò, infatti, la brutalità dell’esecuzione, non tralasciando particolari sconvolgenti, come l’aver raccolto «tre bacinelle di sangue».

Gli atti del processo parlano di «abbondanti salassi e urla disumane». L’episodio colpì particolarmente la sensibilità di Leopardi, che decise di non tacere, ma piuttosto di denunciare «Quel carnefice nefando uso, ne’ putri corpi affordar l’acciaro».

C’è chi ha definito questa canzone eccessivamente straziante, chi l’ha definita incredibilmente moderna e controcorrente, e chi ancora, portatrice di importanti valori  ̶ un chiaro grido di protesta contro il femminicidio.

A prescindere da qualsiasi orientamento di pensiero, il dato obbiettivo è che Leopardi è stato uno dei primi autori ad aver avuto il coraggio di affrontare una tematica scomoda (ritenuta per certi versi addirittura

peccaminosa e immorale), con dei versi pregni di delicatezza, significato e melanconica bellezza.

Nessuna parola, però, riconosce il poeta, sarà mai in grado di esprimere a pieno la tragicità di quel momento:

«Forse l’empio tormento di tue povere membra a dir io basto o sventurata?

Tu sai, che non può voce mortal cotanto…».

 

Ambra Belloni

 

Articoli simili

‘Si può fare!’ vuole ricordare Oreste Lionello

David di Donatello 2024: tutti i vincitori

Irene Manca è in concerto a Milano