Lettera di un apartitico a Salvini o a Renzi

Questa è una lettera che può forse dar senso alle parole, se a realizzarle non sono i concetti politici o qualsiasi altra ideologia estremista.  

Certo chi scrive non ha la fama di un Saviano, anche se preferisce l’oscurità trentennale di un Gattopardo alle luci abbaglianti di un’epoca che arranca per donare a WikipediA qualcosa di solido. Le cose che si scrivono, però, devono avere un intento profondo, rammentandoci di quel Signore con il lanternino che vaga per il mondo in cerca di verità.

Le pagine si fermano dentro storie di senso, quando non sono letteratura da quattro soldi, come quella del bambino che morì di stenti, senza riuscire a scendere da una nave, simile all’altro bambino, quello col pigiama a righe, morto tra equivoci e confusioni di identità. Ed è facile morire oggi senza una chiara identità, tra colori scuri e colori chiari, tra eterogeneità linguistiche che se per alcuni sono un arricchimento, per altri puzzano di vucumprà (neologismo diffusosi in Italia a partire dalla seconda metà degli anni ’80 del XX secolo per indicare, in senso denigratorio, scherzoso o dispregiativo razzista, i venditori ambulanti di origine africana), invadenti lungo le spiagge italiane.

A soccorrere quel bambino è stata una donna che, tenendolo tra le braccia piangeva e gridava: “A cosa servono le parole senza le azioni? A cosa servono i pensieri senza l’istinto di sostegno all’umanità? E’ forse questo uno straniero o un bambino morto?“.

Le grida strazianti di quella donna non sono state lette in alcun giornale, né viste in nessuna trasmissione, perché sono grida non del tutto compiute e non si possono ancora narrare. Sono presenti, schiacciate dalla visibilità dei politici piuttosto che della miseria umana. Sfuggono ad un popolo più social che reale, più del sentito dire che consapevole, più gregge che riflessivo. Un populo più che un popolo. Un insieme di corpi che divorati da sentimenti inculcati come l’odio alla cieca, ricordano l’insetto kafkiano incapace di rigirarsi, perché inconsapevolmente appesantito dalla sua corazza.

Ci si domanda cosa significhi il termine straniero, “appartenente ad un altro paese“? Quale? Ve ne è citato uno piuttosto che un altro a prescindere da chi in quel dato momento ci si ritrova a vivere? Perché come diceva Nelson Mandela, Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.”

Non sfuggono neanche le considerazioni dello scrittore Wilbur Smith, che guarda alle diversità dal punto di vista strettamente umano sostenendo che La cura migliore per il razzismo è trovarti di fronte a qualcuno che ti spara addosso. Non importa il colore della pelle di chi viene a salvare la tua… bianco o nero, sei disposto ad abbracciarlo .

Dunque non solo ignoranza, ma soprattutto apatia, l’estraneità alle emozioni e ai sentimenti. Quel buio oltre la siepe neanche sfiorato dagli occhi, nemmeno ricordato o immaginato, che è quel che affligge nel profondo l’umanità. E’ come essere malati e non saperlo mai, è come recepire l’informazione, quella legata alla cronaca, sotto forma di film e non di realtà, come questa lettera, dal titolo un pò provocatorio, poiché occorre un’esca visibile per far abboccare i pesci all’amo.

Che tristezza però,  “Che dolci sogni mi spirò la vista di quel lontano mar, …. della sventura mia; quando la terra mi fia straniera valle, e dal mio sguardo fuggirà l’avvenir” (Le ricordanze di Leopardi). Eppure ogni citazione ha poco senso se manca la zona pulsante nella mente e nel corpo di un uomo.

E nessuna parola ha senso, senza una vera azione, senza una donna che grida con un bambino morto tra le braccia. Le parole sono come pentole bollenti, infuocate dai martiri e dal coraggio incandescente di alcuni. Toccarle imprudentemente scotta. La prudenza, però, è di chi conosce, solo di chi ha dentro una visuale infinita di se stesso e degli altri.

Lettera inviata senza ricevuta di ritorno. Non interessa sapere se arriva davvero, se vola a destra o a sinistra.  Ciò che conta è che sia stata scritta, che faccia delle parole un porto sicuro, dove nessuno è costretto a morire.

Eleonora Giovannini

 

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