Da Maastricht a Schengen, da Elstin a Putin, passando per Trump.
Quando nel febbraio del 1992 veniva firmato il Trattato di Maastricht, ci eravamo illusi che da quel momento l’Europa sarebbe diventata una grande entità varipinta di culture, storie, tradizioni e costumi, formalmente costituita per essere percorsa e vissuta, all’insegna del conoscersi reciprocamente, arricchirsi di idee e di nuove prospettive di vita. La logica era l’affascinante tragurado dell’abbattimento dei controlli alle frontiere, materializzata con l’ultima tappa degli accordi di Schengen che, con la prospettiva dell’ormai vicina entrata in vigore della moneta unica, rendeva straordinarimente concreta e plastica la visione dei confini trasformati in orizzonti. La conclusione delle tragiche guerre jugoslave, che hanno insaguinato per un decennio il territorio lasciato in eredità dal Maresciallo Tito, trasformato in una flotta di stati indipendenti, sembrava poter essere la luce di speranza di un coinvolgimento verso Est del grande sogno europeo. Un sogno che, i più ottimisti, vedevano capace di persuadere anche le più rigide politiche istituzionali dell’ex impero sovietico, partendo proprio dalla Russia. A metà degli anni novanta, una conferenza stampa tra l’allora leader russo Boris Elstin e il Presidente americano Bill Clinton, finita con battute da osteria tra i due, che se la ridevano in modo contagioso davanti alle telecamere, sembrava il simbolo di nuove prospettive nel complesso mondo della geopolitica, all’insegna della pace e di rapporti sempre più distesi tra il mondo occidentale e quello orientale.
L’Europa unita doveva essere la solida base per consentire agli Usa di riformulare in termini diplomatici nuovi riposizionamenti anche nei rapporti con l’Est europeo, affinchè il mondo potesse finalmente pensare di mettere fine alle tensioni tra paesi in guerra, creando le basi per non avviare nuovi coflitti.
Quanto eravamo ingenui, verrebbe da dire. Ora che le recenti decisioni della Commissione europea e del Parlamento europeo sul piano di riarmo continentale, non solo pongono la strategia della guerra come una delle opzioni più concrete per la politica di difesa dell’Europa, ma puntano al riarmo come elemento focale per la gestione dei rapporti tra UE e il resto del vecchio continente. Il concetto di Unione Europea come passo in avanti per una politica istituzionale sempre più matura e sempre più lanciata verso politiche diplomatiche di azione e prevenzione dei conflitti, viene tragicamente mortificato da un’assurda corsa al riarmo, con i vertici dell’Unione disposti a sospendere il Patto di Stabilità per comprare e produrre armi, quando per la salute, per la lotta alla povertà, per avere un Welfare più a misura di una società civile (o semplicemente umana), i soldi non ci sono mai. Guai a “sforare” !
Il riarmo rischia di inasprire ancora di più la povertà e le diseguaglianze sociali. Non solo: l’eccessivo denaro a favore di fucili, carri armati, aerei da guerra e bombe, toglie il già scarso ossigeno per la tutela della salute, del lavoro e di una vita dignitosa. Già, negli ultimi anni, abbiamo visto i governi europei sdoganare tagli economici che appassiscono diritti essenziali, che fino a qualche tempo fa erano considerati inviolabili, “sacri”. Ora l’abbinamento tra l’umiliazione del concetto di diplomazia come metodo principe per prevenire i conflitti, l’onerosissima corsa al riarmo, le divisioni sociali sempre più marcate, il venir meno della difesa dei diritti essenziali e, trasversalmente, una fiducia sempre più bassa verso la classe politica, nazionale e internazionale, rischia di creare conflitti ben più concreti e palpabili di quelli che chi ci comanda a livello di Unione, vorrebbe respingere con missili e droni.


