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Nori dè Nobili: una pittura che vola senza ali

Il talento, per quanto normalmente considerato un dono, può divenire condanna, se a riceverlo è una donna vissuta in contesti sociali lesivi, come nei primi anni del novecento, quando a fatica l’animo femminile riesce a camminare dentro idee proprie, tra le imposizioni di un padre, ufficiale di artiglieria, ed un quadro storico che contribuisce alla formazione del suo carattere, al destino della sua esistenza.

Stiamo parlando di Nori dè Nobili, pittrice pesarese, nata il diciassette dicembre del 1902.

Trascorre i suoi anni trasferendosi più volte, da Pesaro a Senigallia, a Viareggio, a Roma, a Firenze, seguendo le diverse necessità familiari. Intanto la sua passione per la pittura si fa sempre più spiccata e sarà per lei uno stile di vita costante, fino alla fine dei suoi giorni.

L’impulso emotivo, la sua stessa sofferenza dettata dalle imposizioni subite dal padre circa le sue scelte sentimentali, ma anche in merito ai suoi desideri legati allo studio, la indeboliranno fino a ritrovarsi ricoverata più volte presso cliniche psichiatriche, ricoveri stabiliti da tutta la famiglia riunita e che probabilmente Nori interpreterà come abbandono, come quel rifiuto che trapela immortale in molte delle sue opere. Dipinti intensi, dove primeggiano autoritratti multiformi, indagini allo specchio di una Nori che aveva interiorizzato la sofferenza anche viaggiando insieme alle truppe, ai feriti e ai profughi, durante la ritirata di Caporetto. Quella stessa precarietà tramutata peraltro  in reclusione, sul finire della guerra, nel pieno di una epidemia di spagnola.

Reclusa, prima dentro scelte non sue e poi in diverse case di cura, Nori finirà con il rifiutare ogni sorta di legame con la sua famiglia, rimanendo perfino indifferente alla notizia della morte dei suoi genitori. Un mutismo dei sentimenti in risposta ai fili che governarono la sua vita, gli stessi che troviamo in uno dei suoi dipinti, bambola coi capelli bianchi, uno tra i tantissimi simboli presenti nella sua pittura, che raffigura la donna come un burattino.

Morirà nel 1968 di tumore non curato, perchè negli ultimi tempi rifiutava di farsi perfino toccare. Così, se i suoi precedenti tentativi di suicidio avevano indotto l’intera famiglia a ricoverarla, adesso era forse lei  a non voler più essere salvata. La scelta di morire in consapevolezza si mostra in questo modo incisiva al pari della forza espressiva dei suoi numerosissimi ed incessanti disegni. Disegni in seguito raccolti dalla sorella Bice e che ritroviamo su stralci di giornali, su scatole di cartone, su pezzi di legno, come un ininterrotto  sottofondo ossessivo e intimo. Tratteggi di arte vissuta nel quotidiano, un’arte intesa dalla stessa pittrice come strumento di salvezza e non di lucro, motivo per cui non parteciperà mai a mostre e non esibirà mai le sue opere in pubblico.

Una donna castrata in tutte le proprie manifestazioni espressive, dall’amore a quella vitalità non compresa e riversata in un pianoforte più dipinto che suonato, come in una vita più sognata che vissuta.

Eleonora Giovannini

 

Immagine tratta da “stanze letterarie”

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