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Arte e anticonformismo: Leonor Fini

Pittrice per vocazione e autodidatta, Leonor inizia il suo percorso di vita come in un romanzo: figlia di genitori divorziati, è oggetto centrale della loro disputa sulla custodia per diversi anni, tanto da spingere il padre, argentino, a tentare di rapirla. La madre, per opporsi alle azioni estreme dell’ex marito, inizia a travestire la piccola da maschio. Il travestimento rimarrà negli anni successivi una tecnica usata dalla donna in più occasioni. Gli anni di formazione sono triestini, in un’atmosfera satura di artisti, letterati e atelier, che frequenta assiduamente.

Negli anni trenta si trasferisce a Parigi e incontra i surrealisti Breton, Dalì, Ernst e Eluard; con loro entrerà nel mondo dell’arte europea e americana, approdando al MOMA. Seguono tra gli anni trenta e quaranta varie avventure sentimentali, tra i quali varie storie, un matrimonio e infine un trio, durato 37 anni e interrotto solo alla morte di uno dei due, nel 1980. Gli stessi anni sono anche il periodo fortemente surrealista dell’artista, che si evolverà in una pittura colta, ricca di rimandi quattrocenteschi.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale torna in Italia come ritrattista, alternandosi tra lavoro a Roma e lunghe pause presso la torre di Azio e un monastero abbandonato in Corsica, dove organizza delle sorta di rituali artistici con altri pittori e artisti, tra travestitismo, pittura e fotografia.

Dopo il periodo in Italia, vira il suo stile in quello che viene definito “periodo delle figure minerali” tra una ricerca assidua di modernità individuale e rievocazioni di tappe artistiche passate come i preraffaelliti. Sono gli anni della volontà di discostarsi da chi l’ha resa famosa, i surrealisti, e di emergere come artista poliedrica. In questi anni, infatti, si occupa anche di teatro, romanzi e fotografia.

Gli anni sessanta e settanta sono segnati da una profonda inquietudine, e da una forte introspezione: bambole e figure oscure, sfingi e figure femminili, in un’atmosfera alla Fussli, ricca di rievocazioni romantiche come le poesie di Blake, su sfondi cupi e claustrofobici: sono gli anni della “camera dei ricordi”, forse i lavori più unici e veri dell’artista, che si rivela in tutte le sue fragilità in chiave simbolica; è la chiusura di un ciclo, l’ultima fase, la più sentita e consapevole, di un’artista che sa di aver fatto la storia, tra amori inusuali e atteggiamenti fuori dagli schemi femminili del tempo. Sono le ultime cose da dichiarare, gli ultimi tasselli di un puzzle, la sua essenza, tenuti per sé quasi tutta la vita e ora donati al mondo, per capirla finalmente nella sua totalità. Vincerà il premio San Giusto d’Oro nel 1969.

Alla morte, nel 1996, decide di riunirsi ai suoi due amati in un mausoleo a tre in Francia.

Elena Caravias

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