L’esperienza di Andrea De Carlo in “Due di due”
“Due di due ho cominciato a scriverlo nell’85. […] Sono andato avanti per tre o quattro capitoli e poi ho smesso […]”. Così scrive Andrea De Carlo nella sua introduzione al romanzo uscito per la prima volta nel settembre dell’89. Cosa è successo dunque nel tempo intercorso tra la stesura dei primi capitoli e l’ultimazione di un libro diventato un vero e proprio “cult”? A fornire la risposta è sempre l’autore che non teme di mettersi a nudo.
“A un certo punto – prosegue De Carlo – mi sono accorto che la mia vita aveva preso una direzione un po’ sbagliata come succede a volte alle vite, al punto che non riuscivo più molto a riconoscerla. Mi sentivo come il passeggero di una nave che confonde il senso del movimento con l’idea di avere una rotta, e si rende conto di colpo di andare alla deriva, e che non c’è nessun altro al timone a pilotare per lui”. “E allora, come è andata a finire questa fase di disorientamento?” verrà spontaneo chiedersi. La risposta giunge subito dopo.
“Sono tornato a cercare tra le mie carte, e ho ritrovato i primi capitoli di questa storia”. Bene tutto è bene quel che finisce bene, si potrebbe pensare. In realtà la vicenda non è andata proprio così. “I personaggi – è sempre De Carlo a testimoniare – sembravano furiosi di essere stati abbandonati per altri anni in attesa”. Sembra quindi di capire che una volta che i personaggi sono stati partoriti, “pretendono” di continuare a vivere. Ma se all’inizio si potrebbe credere che sia l’autore a pilotare il tutto poi il gioco delle parti sembra invertirsi. Ma vediamo cosa è accaduto all’autore in questo caso specifico.
“I personaggi hanno ripreso a muoversi e parlare appena io ho ripreso a scrivere, mi hanno travolto con le loro voci e idee e sentimenti”. Una sorta dunque di “possessione” creativa. E infatti subito dopo De Carlo scrive: “Non mi era mai capitato di sentirmi così intensamente uno strumento o un tramite: non avevo mai provato lo stesso tipo di corrente febbrile che mi passava attraverso”. La vita dell’autore quindi si intreccia fino a confondersi con quella dei suoi personaggi. “Ero tutto il tempo con i personaggi di questa storia; parlavo con loro ad alta voce, me li sognavo di notte”.
Un dialogo quindi tra mondo della realtà fisica e mondo della fantasia, verrebbe da dire. Ma De Carlo si spinge ancora oltre quando dice: “A volte in sogno li vedevo fare cose diverse da quelle che gli avevo fatto fare nelle mie pagine scritte, o li ascoltavo dire cose diverse, così quando mi svegliavo andavo subito a ridargli i gesti e le parole giuste”. E’ come dunque se nell’autore si fosse inserito una sorta di pilota automatico alla cui guida si sono messi gli stessi personaggi da lui creati, che da sue creature diventano creatori delle prossime mosse.
La scrittura diventa dunque una sorta di percorso dentro se stessi perché, a dirla con De Carlo, “scrivere è un po’ come fare i minatori di se stessi: si attinge a quello che si ha dentro, se si è sinceri non si bada al rischio di farsi crollare tutto addosso”. Vista da questa angolazione, l’esperienza della scrittura richiede una certa dose di coraggio. Ed infatti l’autore poco dopo chiosa in questo modo: “Scrivere è uno dei lavori più pericolosi che ci siano, quando diventa così, ma anche uno dei più entusiasmanti”.
Di Maria Teresa Biscarini