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Quando il gioco del calcio non è più divertimento

by Bruno Cimino

Viene definito il gioco più bello del mondo.  Ha unito generazioni, fatto crescere i sogni di tanti di tutte le età. Per la finale di un campionato nazionale si ferma tutta la popolazione, o quasi, per un mondiale tutte le nazioni, o quasi.

L’ultimo, quello del 2022, disputato in Quatar ha decretato la vittoria dell’Argentina e ancora abbiamo davanti agli occhi le cronache dello sport giocato e di quello vissuto per le strade e nei bar, ma non vogliamo fare una ulteriore cronaca, ne hanno parlato a sufficienza i media nazionali e internazionali.

È del fenomeno sportivo di questo gioco che vorremmo parlare, il cui elevato spessore sociale influenza i ragazzi a partire dalla più tenere età, con la complicità del padre o del fratello maggiore. Si sceglie una squadra e si tifa per essa, spesso per sempre.

Ma cosa succede nei giovani, e non solo, quando la loro squadra del cuore perde? Quali e quante emozioni si accendono durante la visione di una partita di calcio? Raggiunto il massimo dell’entusiasmo, adolescenti e adulti manifestano davvero contentezza? E, in caso contrario, esternano delusione? In che modo? Con i sentimenti dei bambini non si gioca, lo sappiamo, ma spesso, specialmente per soldi, ce ne dimentichiamo.

Nei paesi europei il gioco del calcio è il più preferito dai ragazzi. L’Italia, sotto questo aspetto non è di meno. Non c’è differenza tra un tifoso di sei o cinquant’anni anni che vive a Palermo ed un suo coetaneo che vive a Torino. Ognuno di loro ha la sua squadra, il suo idolo, senza confini geografici e, fattore molto importante, i più grandi, purtroppo, di solito, impongono la loro opinione e tracciano le differenze tra città e città, che poi diventano pesanti antagonismi. Così, insinuato il seme del plagio dentro il giovane bambino si aspetta che “l’embrione” cresca e diventi ciò che aveva auspicato il papà, per una sua soddisfazione e per la gioia degli zii e cugini, insomma per una crescita ad immagine e somiglianza della cultura delle differenze.  Ed ecco che il tifo diventa anche preda di idee politiche devastanti ad uso e consumo dei così detti “facinorosi”: inizia nelle autostrade, nelle stazioni ferroviarie e negli autogrill ed esplode nelle curve, sulle tribune e nei distinti del tempio dove si consuma una cultura sportiva che ieri a ragione, oggi a torto è il gioco più bello del mondo.

Nel vocabolario calcistico è stata coniata una parola: “fair play” per determinare un concetto astratto di correttezza, che, a dire il vero, non esiste sempre. Il “fair play” consisterebbe addirittura in una stretta di mano tesa da chi ha commesso il fallo a chi lo ha subito. Ma i falli di gioco, in particolare quelli che causano danni fisici all’avversario, nove volte su dieci, non sono involontari. Quando succedono sentiamo dire: “un’ammonizione spesa bene”.

Assistiamo spesso a “performance” dagli spalti dove tra urla, insulti e minacce, qualcuno, non addetto ai lavori, potrebbe pensare che quello è l’allenatore. Il cronista, tanto per citare un altro ruolo, esplode durante il suo monologo con espressioni che sembrano il resoconto di una guerriglia, i calciatori diventano dei combattenti e si va dagli “eroi” della domenica a “ è un assedio”, “si attacca su tutti i fronti”, sino ad arrivare ad “azioni corali devastanti”!

Fosse solo questo le soluzioni ci sarebbero. Ma da diversi anni, il calcio è diventato più duro. Si gioca di più nelle magistrature, nei tribunali, nelle società e tra gli hooligan che negli stadi.

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